Per diversificare l’offerta il Centro-Sud scommette sul melograno

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Melograno
La fame di novità e di diversificazione produttiva spinge gli operatori a cercare soluzioni alternative alle classiche colture frutticole. Il melograno rientra fra queste, ma le variabili climatiche, agronomiche ed economiche devono essere tenute in attenta osservazione per evitare errori di progettazione. Condizioni favorevoli nelle aree centro-meridionali della Penisola, meno altrove. Le prime esperienze di una grande gruppo romagnolo.

Il melograno (Punica granatum) è originario dell’Asia Centrale, da una regione compresa tra l’Iran e l’India settentrionale. Gli antichi Romani lo conobbero grazie ai Cartaginesi (Punicas = cartaginesi) che lo coltivavano in Tunisia e dai quali prese anche il nome (Targioni Tozzetti, 1803). Oggigiorno, il melograno è principalmente coltivato nei Paesi dell’Oriente medio e dell’Asia centrale, su una superficie complessiva che supera i 300.000 ha, di cui oltre il 76% concentrata in soli cinque Paesi (India, Iran, Cina, Turchia e Stati Uniti). Tuttavia, i Paesi che maggiormente contribuiscono all’esportazione, alla ricerca ed al miglioramento genetico della specie sono quelli la cui superficie coltivata non supera i 25.000 ha (es. Spagna, Egitto e Israele), (Quiroz, 2009).

In Italia, le superfici coltivate a melograno sono piuttosto limitate e, sebbene i dati disponibili per questa specie siano poco accurati, le stime recenti indicano che viene coltivato su circa 130 ha, prevalentemente concentrati nel Meridione, con una produzione totale pari a poco oltre le 800 t.

Una ricca variabilità genetica  

Il melograno presenta un’elevata variabilità genetica intraspecifica, nonostante le differenze tra i diversi genotipi possano essere limitate. Tale variabilità è presente soprattutto nelle aree di origine, ma insiste anche negli areali dove la specie si è diffusa. La specie viene classificata in varietà ornamentali e da frutto. A quest’ultimo gruppo appartengono numerose cultivar, diffuse ad ogni latitudine 2. Secondo la classificazione di Evreinoff (1957), le cultivar da frutto vengono distinte in base al contenuto in acido citrico in:

  1. zuccherine dolci (contenuto in acido citrico inferiore allo 0,9%);
  2. agro-dolci (contenuto in acido citrico compreso tra 0,9 e 1,8%);
  3. acide (contenuto in acido citrico superiore a 1,8%).

Tuttavia, sebbene le varietà conosciute siano molteplici (Tab. 2), quelle principalmente diffuse commercialmente a livello mondiale sono poche: Hicaznar (Turca), Bhagwa (India), Ganesh (India), Akko (Israele), Shani-Yonay (Israele), Kamel (Israele), Emek (Israele), Mollar de Elche (Spagna) e Wonderful (California).

Un frutto funzionale

In virtù delle riconosciute proprietà nutraceutiche (Larrosa et al., 2010; Gil et al., 2000), il melograno può essere incluso tra i frutti funzionali, ossia tra gli alimenti la cui influenza benefica su una o più funzioni dell’organismo umano è stata sufficientemente dimostrata.

Il frutto del melograno, una bacca carnosa che contiene generalmente 8 carpelli (porzione commestibile), all’interno dei quali si trovano gli arilli ed i semi, è costituito per l’80% di acqua. I semi hanno una consistenza legnosa, di forma prismatica, di colore rosa, rosso scuro o bianco e sono molto succosi. Gli arilli sono ricchi di acqua, zuccheri, fibra grezza, acidi grassi polinsaturi, vitamina C, potassio e sono a basso contenuto di sodio e calorie. Il succo di melograno ha proprietà antiossidanti, soprattutto in virtù del contenuto in antociani ed ellagi-tannini (Melgarejo e Valero, 2012). Questi ultimi composti sono noti per la loro azione antivirale, antiossidante e protettiva nei confronti di alcuni tumori che intervengono anche nei processi digestivi (Petti e Scully, 2009). Tra questi, si distingue in particolare l’acido ellagico, che è antimutageno, ossia si oppone ai cambiamenti deleteri del DNA nucleare che portano all’invecchiamento cellulare e, nei casi peggiori, a sviluppare tumori (Fjaeraa e Nanberg, 2009).

Un rinnovato interesse in Italia

Sebbene la specie sia presente in Italia da millenni, il melograno è ad oggi relegato ad un ruolo prevalentemente ornamentale, con isolate esperienze nella frutticoltura specializzata in alcuni areali meridionali. Tuttavia, recentemente, la specie sta riscuotendo un crescente interesse commerciale anche nel nostro Paese in virtù delle apprezzate caratteristiche funzionali del succo e dei derivati alimentari (Fideghelli et al., 2014). Lo testimonia il costante aumento dei consumi e la conseguente crescente importazione da altri Paesi, soprattutto da Spagna, Grecia, Turchia e Israele. Ciò fa intravedere attraenti prospettive di commercializzazione in grado di rappresentare una potenziale fonte di reddito per i produttori e per rinnovare il tradizionale comparto frutticolo nazionale. Occorre però molta prudenza, poiché il buon esito dei nuovi impianti dipende strettamente dal trend dei consumi, altrimenti si rischia de raggiungere presto la saturazione del mercato.

 

Il progetto pilota di Terremerse al Centro-Sud

Tra i primi, il gruppo cooperativo Terremerse (Bagnacavallo, Ra) ha creduto che in Italia fosse possibile intraprendere la coltivazione commerciale del melograno. A tal fine, a partire dal 2011 l’Ufficio Tecnico del gruppo ha avviato uno studio di settore, sia tecnico sia commerciale, per definire i sistemi di coltivazione e la tecnologia di gestione post-raccolta più appropriati per gli ambienti italiani. L’idea prevede la creazione di una filiera certificata italiana, privilegiando la valorizzazione del prodotto per il consumo fresco che può contare su crescenti sbocchi di mercato, con interesse anche per il segmento bio (prodotto per il consumo fresco, per la IV gamma e dedicato all’industria per la produzione di succhi e concentrati).

A tal fine, dal 2013 sono stati messi a dimora i primi impianti in Basilicata, Lazio e Sicilia che ad oggi contano oltre 85 ha, di cui circa 10 coltivati in regime biologico. I punti fondamentali che hanno guidato il progetto sono stati:

  • la vocazionalità, promuovendo la coltivazione solo nelle aree vocate del Centro-Sud Italia;
  • la scelta varietale, puntando sulle cv Akko e Wonderful le quali sembrano garantire le migliori performance. Il potenziale produttivo di queste varietà, infatti, varia fra le 30 e le 40 t/ha, con una precoce entrata in produzione (II anno) e una durata media dell’impianto di circa 15 anni. Le due varietà consentono, inoltre, di prolungare il calendario di commercializzazione in quanto Akko, essendo più precoce, può essere commercializzata da fine settembre a novembre, mentre Wonderful può essere commercializzata da fine ottobre a marzo, conservando il prodotto in appositi sacchi osmotici;
  • l’applicazione delle tecniche di produzione israeliane, adattate alle condizioni pedoclimatiche italiane maggiormente vocate e l’assistenza offerta da tecnici specializzati.
  • Tecnica frutticola moderna
  • Per la realizzazione e la gestione degli impianti viene adottato il modello israeliano, che consiste nell’applicazione di un capitolato tecnico di produzione del quale si riassumono i punti fondamentali.
  • L’impianto prevede una densità di 475 piante/ha, con un sesto di 6x3,5 m, ed impianto irriguo ad ala gocciolante per garantire il soddisfacimento idrico della coltura, compreso tra 5.000 e 7.000 m3/ha per anno nelle zone più siccitose del Sud, nonché la distribuzione dei fertilizzanti veicolati con la fertirrigazione. Le piante vengono messe a dimora lungo un volume baulato, a forma trapezoidale, alto fino a 70 cm, largo alla base circa 220 cm e 120 cm al colmo, al fine di salvaguardare le radici della pianta da rischi di asfissia radicale. Lungo la fila viene predisposta la pacciamatura con telo bianco al fine di sfruttare il potere rifrangente del telo stesso per colorare i frutti anche nella parte inferiore sebbene l’utilizzo di telo pacciamante nero avrebbe il vantaggio di impedire la crescita delle malerbe che invece avviene sotto il telo bianco/trasparente; il telo bianco, additivato per la resistenza alle alte temperature estive e alle intemperie invernali, inoltre, aiuta a mantenere più fresco il terreno e a ridurre l’emissione dei polloni, cui questa specie è particolarmente predisposta. Infine, la pacciamatura consente il mantenimento di una certa umidità del suolo, evitando l’evapotraspirazione che si avrebbe in assenza della pacciamatura, consentendo un risparmio idrico fino al 40% rispetto agli impianti privi di telo.
  • Le piante vengono allevate mediante la predisposizione di strutture di sostegno ad Y trasversale, intervallate ogni 10 m lungo il filare che consentirà, con le successive legature, di dare la forma a “ombrello” alla pianta, favorendo l’irraggiamento solare al centro e una distribuzione uniforme dei rami.
  • Uno sguardo ai costi
  • In accordo con le previsioni effettuate dalla Coop. Terremerse, il costo medio di un impianto di melograno (stima ottenuta considerando i costi medi di manodopera e di lavorazione) varia tra 15.000 e 20.000 €/ha. I costi per i materiali comprendendo le piante, il letame o lo stallatico, il telo pacciamante, l’impianto d’irrigazione, la palificazione, i cavi di sostegno e gli ancoraggi; per un totale di circa 12.000 € per ettaro. A queste si aggiungono i costi per lo squadro e la progettazione, la messa a dimora delle piante, la distribuzione del letame, la realizzazione di baulatura, pacciamatura e messa in opera della strutture di sostegno, il cui ammontare varia tra 3 e 7.000 €/ha
  • Per la gestione dell’impianto sono state calcolate circa 75 giornate/ha/anno ed il costo annuale, compresa la quota di ammortamento, è di circa 12.000 €/ha. Ipotizzando quindi una produzione pari a circa 30 t/ha, il costo di 1 kg di prodotto è di circa 0,40 €.
Per diversificare l’offerta il Centro-Sud scommette sul melograno - Ultima modifica: 2015-12-03T10:27:09+01:00 da Lucia Berti

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